Una pittura in cammino
di Sandro Parmiggiani, 2015
Nella commissione, fatta ad un artista, di realizzare una serie di opere della stessa dimensione – in questo caso assai piccola, trattandosi di dipinti che misurano venti per venti centimetri – si annida un'insidia: che l'artista svolga un lavoro di routine, accontentandosi di replicare i nuclei fondamentali del suo linguaggio, in qualche modo proponendo una sorta di mini-antologia del suo percorso. Va subito detto che in questa occasione – come in quella precedente, che vide diciannove anni fa Franco Rognoni cimentarsi con una serie di opere dello stesso formato, felice esperienza cui questa iniziativa vuole ricollegarsi – Marino Iotti si è sottratto al pericolo. Come documenta questo volume, l'artista ha preparato dipinti che sono si una rivisitazione e una riformulazione del suo linguaggio e della sua sintassi, ma sono sopratutto – credo anche in ragione dell'insolito piccolo formato quadrato -un tentativo di verifica delle possibilità di sviluppare, combinandoli in maniera nuova, gli elementi della sua pittura degli ultimi vent'anni.
Se ripercorriamo l'evoluzione dell'opera di Marino Iotti – documentata ad esempio, nella mostra antologica, a lui dedicata, nei Chiostri di San Dmenico di Reggio Emilia nella primavera del 2011-, vediamo che nei vent'anni allora presi in esame, ricompresi tra il 1990 e il 2010, mutano, pur nella coerenza e nella fedeltà a un linguaggio che ormai lui sente come il suo peculiare, le modalità gestuali di stesura del colore, che determinano diverse configurazioni dell'opera: dai vortici e dalle turbolenze iniziali, che presto accolgono l'irruzione del segno (fendenti che squarciano lo spazio; elementi decorativi che s'involano e si replicano), alle segmentazioni verticali, stele sulle quali s'inscrive un brulichio di segni di un alfabeto del mistero; dalle forme tendenzialmente quadrate o rettangolari che si vanno a collocare, sempre all'interno di un impianto sostanzialmente legato alla verticalità, in incastri e disposizioni di varia configurazione, fino al sempre più frequente ricorso, verso la fine del primo decennio di questo secolo, a una struttura più insistentemente caratterizza da segmentazioni orizzontali, con un lembo di orizzonte, magari confinato in alto, nel margine superiore dell'opera, quasi ad esprimere una tensione alla visione di una sorta di paesaggio. All'interno di questa evoluzione, se ne potrebbero individuare alcune altre, legate all'utilizzo della materia pittorica, che nell'opera di di Iotti è venuta assumendo un ruolo primario, una materia ora compatta ora squamantesi (quasi a rappresentare, insieme, una sua intima dissoluzione e l'esigenza di cogliere brividi di luce che, come lucciole, possono sorgere al suo interno), e che può alternativamente rifulgere levigata, nella veste dei colori che l'artista ha scelto di darle, od accogliere nel suo grembo graffiti, segni di varia natura e consistenza. Aggiungiamo che, nel tempo,
l'artista ha fatto ricorso all'inserimento di altri materiali, quali frammenti di schegge di legno, tessuti magari damascati, e così via. Iotti s'affida a tanti colori, adottando ora toni meno accesi ora fortemente caratterizzati, quali il giallo, il rosso, il blu, il verde, anche se c'è, in tutto il suo percorso, e ancor più nettamente in questi piccoli dipinti ultimi, un costante ricorso al nero, un colore ti totale radicalità e assolutezza rispetto a tutti gli altri che compongono la scala cromatica. Credo che Iotti si affidi al nero non tanto per un'esigenza di contrappunto, alla ricerca di una qualche forma di “eleganza” quando lo accosta a qualche altro colore, ma come espressione di valori specifici, pittorici e sentimentali – il nero non esprime assolutamente il vuoto, ma il luogo di infinite vite e di misteri non ancora svelati, come testimonia del resto il fatto che lo si intraveda affiorare sotto le stesure del colore: il nero come termine ed origine di tutto ciò che a noi sulla superficie si mostra.
Fatta questa doverosa ricognizione, lasciamo scorrere sotto i nostri occhi la sequenza dei piccoli dipinti riprodotti in questo volume. La loro dimensione non sacrifica affatto la complessità della composizione, anche se forse, rispetto a quadri più grandi , Iotti riesce a inoltrarsi nei territori di una lirica, rigorosa essenzialità – abbiamo dunque la riconferma che la qualità e il valore di un'opera non sono affatto meccanicamente legati alle sue dimensioni. Se analizziamo questi dipinti, possiamo notare che, sul bordo superiore, si è insediato una sorta di orizzonte “alto”, caratterizzato da una o due sottili strisce (un colore steso su un supporto o affidato a un frammento di legno), elemento che, non casualmente, viene spesso replicato in basso e contrappuntato con qualche analoga forma, magari percorsa da puri segni di ignota decifrazione, che si sviluppa sui lati verticali. Al centro dell'immagine, ecco che si dispiegano delle forme geometriche, di varia consistenza, i cui confino sono scanditi da linee o sanciti dalla forza di un colore, forme navigate da segni spesso neri, con un piccolo elemento geometrico, talvolta ancora nero, altre volte di un colore diverso (raramente con qualche figura incisa al suo interno), che subito cattura lo sguardo: nucleo pulsante che irradia mistero. Nel corpo centrale dell'opera di dipanano linee curve, frammenti di una forma che tende a fuoriuscire dalla superficie, oppure si delineano in riquadri, talvolta di antico impianto verticale. Al di là della soluzione compositiva, Iotti sciorina, con la consueta perizia, colori sontuosi (gialli, rossi, blu, verdi) e colori che parlano con una voce più dimessa (grigi), ma non meno nitida e comunque sempre affascinante; altrettanto vario è il repertorio dei segni tipici dell'artista, che spesso rimano sulla superficie dell'opera.
La linea alta dell'orizzonte, quella in basso e quelle laterali, paiono circoscrivere e stringere d'assedio il nucleo centrale del dipinto, quasi a contenderne l'espansione, come se fossimo di fronte alla metamorfosi di una realtà plastica in divenire, che va ricercando una sua propria forma e definizione, assestandosi entro i confini dell'opera. Emerge nitidamente, nei piccoli dipinti di questa serie, una sorta di segmentazione “geologica”, come se in queste rappresentazioni, in cui l'aperta allusione al “paesaggio”, soprattutto in relazione all'orizzonte che in alto continuamente s'insinua, si fondessero ciò che noi vediamo dentro la luce del mondo e ciò che, ignoto, se ne sta, nel grembo del buio, sotto di noi, e come se dunque tra ciò che è esterno e ciò che è interno, tra ciò che è proprio del mondo e ciò che s'agita dell'interiorità più remota, si desse una misteriosa corrispondenza che solo un'immaginazione visionaria può svelare. Paiono, in questi paesaggi, fondersi due motivi: la memoria dello sguardo sulla natura che riaffiora da un tempo lontano, dopo essere stata contaminata, nel transito dell'oscurità verso la luce, dalla fantasia, e segnata, nella fase della rappresentazione, da una costante tensione all'essenziale; la memoria della pittura, che sempre bussa alla porta mentre Marino se ne sta davanti alla tela.
Nell'ormai lungo percorso pittorico di Iotti si potevano leggere alcuni riferimenti artistici cui l'artista può avere guardato, che già abbiamo avuto occasione di esplicitare in un testo di dieci anni fa, ai quali crediamo ora doveroso aggiungere quelli di Nicolas De Staël e di Victor Pamore. Non è stata dunque, questa impresa dei “venti per venti” di Marino Iotti, una stanca rivisitazione di ciò che è stato, ma un cammino che tiene assieme la memoria del passato e la tensione dell'inesplorato: una sorta di accumulo di energia per inoltrarsi in nuovi territori, che, forse, avranno le sembianze di una più insistita tensione alla semplificazione e all'essenzialità delle forme e che, magari, adotteranno soluzioni non insensibili al fascino di una pur larvale astrazione.
di Sandro Parmiggiani, 2015
Nella commissione, fatta ad un artista, di realizzare una serie di opere della stessa dimensione – in questo caso assai piccola, trattandosi di dipinti che misurano venti per venti centimetri – si annida un'insidia: che l'artista svolga un lavoro di routine, accontentandosi di replicare i nuclei fondamentali del suo linguaggio, in qualche modo proponendo una sorta di mini-antologia del suo percorso. Va subito detto che in questa occasione – come in quella precedente, che vide diciannove anni fa Franco Rognoni cimentarsi con una serie di opere dello stesso formato, felice esperienza cui questa iniziativa vuole ricollegarsi – Marino Iotti si è sottratto al pericolo. Come documenta questo volume, l'artista ha preparato dipinti che sono si una rivisitazione e una riformulazione del suo linguaggio e della sua sintassi, ma sono sopratutto – credo anche in ragione dell'insolito piccolo formato quadrato -un tentativo di verifica delle possibilità di sviluppare, combinandoli in maniera nuova, gli elementi della sua pittura degli ultimi vent'anni.
Se ripercorriamo l'evoluzione dell'opera di Marino Iotti – documentata ad esempio, nella mostra antologica, a lui dedicata, nei Chiostri di San Dmenico di Reggio Emilia nella primavera del 2011-, vediamo che nei vent'anni allora presi in esame, ricompresi tra il 1990 e il 2010, mutano, pur nella coerenza e nella fedeltà a un linguaggio che ormai lui sente come il suo peculiare, le modalità gestuali di stesura del colore, che determinano diverse configurazioni dell'opera: dai vortici e dalle turbolenze iniziali, che presto accolgono l'irruzione del segno (fendenti che squarciano lo spazio; elementi decorativi che s'involano e si replicano), alle segmentazioni verticali, stele sulle quali s'inscrive un brulichio di segni di un alfabeto del mistero; dalle forme tendenzialmente quadrate o rettangolari che si vanno a collocare, sempre all'interno di un impianto sostanzialmente legato alla verticalità, in incastri e disposizioni di varia configurazione, fino al sempre più frequente ricorso, verso la fine del primo decennio di questo secolo, a una struttura più insistentemente caratterizza da segmentazioni orizzontali, con un lembo di orizzonte, magari confinato in alto, nel margine superiore dell'opera, quasi ad esprimere una tensione alla visione di una sorta di paesaggio. All'interno di questa evoluzione, se ne potrebbero individuare alcune altre, legate all'utilizzo della materia pittorica, che nell'opera di di Iotti è venuta assumendo un ruolo primario, una materia ora compatta ora squamantesi (quasi a rappresentare, insieme, una sua intima dissoluzione e l'esigenza di cogliere brividi di luce che, come lucciole, possono sorgere al suo interno), e che può alternativamente rifulgere levigata, nella veste dei colori che l'artista ha scelto di darle, od accogliere nel suo grembo graffiti, segni di varia natura e consistenza. Aggiungiamo che, nel tempo,
l'artista ha fatto ricorso all'inserimento di altri materiali, quali frammenti di schegge di legno, tessuti magari damascati, e così via. Iotti s'affida a tanti colori, adottando ora toni meno accesi ora fortemente caratterizzati, quali il giallo, il rosso, il blu, il verde, anche se c'è, in tutto il suo percorso, e ancor più nettamente in questi piccoli dipinti ultimi, un costante ricorso al nero, un colore ti totale radicalità e assolutezza rispetto a tutti gli altri che compongono la scala cromatica. Credo che Iotti si affidi al nero non tanto per un'esigenza di contrappunto, alla ricerca di una qualche forma di “eleganza” quando lo accosta a qualche altro colore, ma come espressione di valori specifici, pittorici e sentimentali – il nero non esprime assolutamente il vuoto, ma il luogo di infinite vite e di misteri non ancora svelati, come testimonia del resto il fatto che lo si intraveda affiorare sotto le stesure del colore: il nero come termine ed origine di tutto ciò che a noi sulla superficie si mostra.
Fatta questa doverosa ricognizione, lasciamo scorrere sotto i nostri occhi la sequenza dei piccoli dipinti riprodotti in questo volume. La loro dimensione non sacrifica affatto la complessità della composizione, anche se forse, rispetto a quadri più grandi , Iotti riesce a inoltrarsi nei territori di una lirica, rigorosa essenzialità – abbiamo dunque la riconferma che la qualità e il valore di un'opera non sono affatto meccanicamente legati alle sue dimensioni. Se analizziamo questi dipinti, possiamo notare che, sul bordo superiore, si è insediato una sorta di orizzonte “alto”, caratterizzato da una o due sottili strisce (un colore steso su un supporto o affidato a un frammento di legno), elemento che, non casualmente, viene spesso replicato in basso e contrappuntato con qualche analoga forma, magari percorsa da puri segni di ignota decifrazione, che si sviluppa sui lati verticali. Al centro dell'immagine, ecco che si dispiegano delle forme geometriche, di varia consistenza, i cui confino sono scanditi da linee o sanciti dalla forza di un colore, forme navigate da segni spesso neri, con un piccolo elemento geometrico, talvolta ancora nero, altre volte di un colore diverso (raramente con qualche figura incisa al suo interno), che subito cattura lo sguardo: nucleo pulsante che irradia mistero. Nel corpo centrale dell'opera di dipanano linee curve, frammenti di una forma che tende a fuoriuscire dalla superficie, oppure si delineano in riquadri, talvolta di antico impianto verticale. Al di là della soluzione compositiva, Iotti sciorina, con la consueta perizia, colori sontuosi (gialli, rossi, blu, verdi) e colori che parlano con una voce più dimessa (grigi), ma non meno nitida e comunque sempre affascinante; altrettanto vario è il repertorio dei segni tipici dell'artista, che spesso rimano sulla superficie dell'opera.
La linea alta dell'orizzonte, quella in basso e quelle laterali, paiono circoscrivere e stringere d'assedio il nucleo centrale del dipinto, quasi a contenderne l'espansione, come se fossimo di fronte alla metamorfosi di una realtà plastica in divenire, che va ricercando una sua propria forma e definizione, assestandosi entro i confini dell'opera. Emerge nitidamente, nei piccoli dipinti di questa serie, una sorta di segmentazione “geologica”, come se in queste rappresentazioni, in cui l'aperta allusione al “paesaggio”, soprattutto in relazione all'orizzonte che in alto continuamente s'insinua, si fondessero ciò che noi vediamo dentro la luce del mondo e ciò che, ignoto, se ne sta, nel grembo del buio, sotto di noi, e come se dunque tra ciò che è esterno e ciò che è interno, tra ciò che è proprio del mondo e ciò che s'agita dell'interiorità più remota, si desse una misteriosa corrispondenza che solo un'immaginazione visionaria può svelare. Paiono, in questi paesaggi, fondersi due motivi: la memoria dello sguardo sulla natura che riaffiora da un tempo lontano, dopo essere stata contaminata, nel transito dell'oscurità verso la luce, dalla fantasia, e segnata, nella fase della rappresentazione, da una costante tensione all'essenziale; la memoria della pittura, che sempre bussa alla porta mentre Marino se ne sta davanti alla tela.
Nell'ormai lungo percorso pittorico di Iotti si potevano leggere alcuni riferimenti artistici cui l'artista può avere guardato, che già abbiamo avuto occasione di esplicitare in un testo di dieci anni fa, ai quali crediamo ora doveroso aggiungere quelli di Nicolas De Staël e di Victor Pamore. Non è stata dunque, questa impresa dei “venti per venti” di Marino Iotti, una stanca rivisitazione di ciò che è stato, ma un cammino che tiene assieme la memoria del passato e la tensione dell'inesplorato: una sorta di accumulo di energia per inoltrarsi in nuovi territori, che, forse, avranno le sembianze di una più insistita tensione alla semplificazione e all'essenzialità delle forme e che, magari, adotteranno soluzioni non insensibili al fascino di una pur larvale astrazione.