Testo critico
di Sandro Parmiggiani, 2004
C’è una vulgata, cui tanti concorrono, secondo cui la storia dell’arte è fatta del succedersi di movimenti e linguaggi, da cui vengono espunte le esperienze solitarie, in un processo lineare, all’insegna di una sorta di evoluzione darwiniana che contempla progressivi avanzamenti - l’astrazione sarebbe dunque la naturale maturazione e l’inevitabile superamento della figurazione, che più non avrebbe cittadinanza... - e che, per quanto riguarda la realtà italiana, fa sì che si parta da Giotto e si approdi a Maurizio Catellan e a Vanessa Beecroft. Questa convinzione appare lontana dalle esperienze sia della storia dell’arte che dell’esistenza concreta, nelle quali si danno deviazioni, ritorni all’insegna di folgoranti scoperte, oscuramenti che poi si rivelano preziosi, e che pure dovrebbero insegnare quanto sia mal riposta la fiducia in un meccanicismo semplificatorio. Allo stesso modo, chi scrive diffida delle mode - che per natura transitano, sono effimere e hanno dunque la durata e il respiro breve di una stagione -, e mal sopporta chi, nel mondo dell’arte, sente il dovere di levarsi il cappello davanti alle tante furbizie di contenuti, di messaggi ideologici, di effetti speciali buoni solo a stupire, e alle approssimazioni di chi è spesso maestro, soprattutto, nel vendere il proprio, talvolta assai modesto, prodotto.
Questo diffuso senso comune s’accompagna spesso a un’altra convinzione: chi scrive di opere d’arte dovrebbe aborrire la definizione di “critico d’arte”, per assumere e ambire, invece, a quella, apparentemente molto più rassicurante e seria, di “storico dell’arte”. Ma qui i conti presto non tornano. Davanti al lavoro di alcuni giovani artisti, ci sono “storici” che subito gridano al miracolo, alla scoperta di una nuova, sconosciuta terra, mentre in verità quell’enfasi è sovente determinata da un vuoto di conoscenza, di memoria - e dunque da un abbaglio sull’effettiva novità di una proposta - delle vicende di alcuni degli anni più fervidi del Novecento, quelli che vanno dall’immediato dopoguerra a tutti gli anni Sessanta - un’analoga concentrazione di esperienze fondamentali c’era stata nei primi vent’anni dello stesso secolo. Per quanto mi riguarda, continuo a guardare con simpatia alla figura del “critico” perchè, personalmente, trovo che, ad esempio, su Rembrandt e sul chiaroscuro, si possa meglio essere illuminati dalle parole di Georges Simenon, il papà di Maigret, piuttosto forse che da quelle di testi divulgativi di tante storie dell’arte. Più che quella di “critici d’arte”, sarebbe opportuno adottare una vecchia dizione cara a Francesco Arcangeli, quella di compagni di strada - sfrondata dall’idea di una sorta di militanza, di tenace identificazione e fedeltà a un gruppo o a una tendenza, ma riconfermando l’esigenza di una salda tensione etica - o, se si vuole, di “affiancatori”, che cercano, con gli strumenti che hanno a disposizione, di contribuire a gettare altra luce, a distillare altro senso, oltre quelli propri dell’opera - una luce e un senso che essa può custodire nell’oscurità e nel silenzio.
Non intendo affatto, con questa introduzione, “prenderla alla larga”, come si usa fare, quando magari poche sono le cose che si hanno da dire su un autore e si devono comunque riempire le pagine pattuite. Non è, con Marino Iotti, affatto così. È che, di fronte al suo lavoro, mi pongo immediatamente una domanda: perchè egli ha sentito il bisogno, dopo un iniziale periodo figurativo che del resto non conosco, di adottare una lingua, l’informale, che tanti critici e storici à la page considerano, in quanto nata e già sperimentata cinquant’anni fa, morta e inesorabilmente non destinata a risorgere? Perchè dunque egli tuttora si ostina a esprimersi in questa lingua che non è affatto stata cancellata? La risposta che mi do può apparire, insieme, troppo banale e troppo semplice, ma mi pare colga un nucleo di verità: perchè le cose che Iotti ha da dire, le affinità elettive con una certa esperienza del passato che egli ha sentito e scoperto dentro di sè - in fondo, sperimentare, e poi scegliere di immettersi nel grande fiume di un percorso già da altri praticato, significa anche procedere al disvelamento delle proprie sensibilità -, chiamano quella lingua, nella quale l’atto creativo immediatamente si identifica, diventa tutt’uno con l’essere.
Molti anni fa Marino Iotti mi chiese di scrivere un breve testo sul suo lavoro che accompagnasse una sua mostra; ora questo invito si ripete ed è l’occasione di un bilancio. Subito mi accorgo che, da allora, la sua sintassi pittorica, pur in parte evolutasi e arricchitasi di elementi, resta nella sostanza la stessa: il suo approdo all’informale può ormai definirsi saldo e acquisito.
Immutati sono, in lui, pure l’entusiasmo e la passione di chi dedica tutto il proprio tempo all’esercizio della pittura. Lavora, Marino, in una stanza-studio disadorna che si trova nella stessa casa dove vive, ma con un altro accesso, quasi isolata e al margine dell’abitazione, senza i comfort della prima. Non solo il riscaldamento precario, ma tutto appare inospitale, rivela un luogo apparentemente ostile alla vita, nel quale invece, con ostinazione, il pittore continua a creare le proprie opere. Lavora, Iotti, con il fervore di chi sente che l’esercizio continuo, la pratica quotidiana, sono importanti, che un’adeguata tensione e capacità di esprimersi si raggiungono non a “freddo”, ma dentro un operare fatto di ostinati tentativi, nel corso del quali si può scoprire qualche pagliuzza d’oro, o qualche caduca illusione, o qualche strada sbarrata, lungo la quale non ci si può inoltrare - occorre, allora, il coraggio di fare ritorno a ciò che ci è più consono.
La pittura di Iotti non è, negli ultimi anni, come dicevo, mutata nella sostanza: allora come ora sono la materia e il segno gli strumenti elettivi del suo esprimersi. Certo, un tempo la materia, pur corposa, non aveva gli spessori e la variegata composizione che ora ha assunto, permettendo a Marino di scalfirla, di graffiarla, come si scavano solchi sulla terra per seminarla, o sulla corteccia di un albero, o su un muro, per tracciare un proprio segno di identificazione. La materia, oltre che ispessita, si è scaldata, impregnandosi di colori che talvolta s’accendono fino a un rosso sangue - come in Weiss, un’opera molto bella, dedicata al padre partigiano -, o si estenuano in toni caldi quali l’ocra, il giallo, l’arancione, l’azzurro, il blu, o lo stesso nero, che ha la funzione di introdurre a una sorta di cupa rievocazione - sono, le superfici nere, il luogo dove il segno può dispiegarsi con un nitore rivelatore della forma.
I dipinti di Iotti si costruiscono per campiture di materia-colore che paiono insediarsi e svilupparsi all’interno di linee diagonali che sorgono dal basso e svettano, si dispiegano verso l’alto - quasi che fossimo di fronte a una prospettiva che si apre in un movimento ascensionale, e a un’irruzione di vita vegetale sulla superficie dell’opera. Le stesse figure che Marino Iotti ha introdotto - questi grandi tronchi rettangolari dagli esili arti che si protendono in un precario equilibrio, colti in una invocazione che sa, insieme, di gioia e di disperazione - necessariamente si inscrivono in questa struttura dell’opera.
Non è allora forse casuale che queste figure abbiano un’aura solenne, ieratica, e che, guardandole, subito si pensi a idoli, a esseri spuntati direttamente dalla terra, che si ergono di fronte a noi come dopo una creazione o una risurrezione. Questo impianto - che in qualche modo fonde due diversi movimenti spaziali, una proprio della verticalità e l’altro della profondità, e che sembra aver catturato le vibrazioni e le pulsazioni di una composizione musicale -, non è tuttavia esclusivamente funzionale a puri rapporti tonali, di piani prospettici, di armonie che alternativamente allontanano o attraggono lo sguardo. Sono infatti anche pensate, queste tessere di colore, nella loro estensione e nelle loro relazioni, come grembo necessario alla semina e all’impiantarsi di un segno che, proprio attraverso le ferite arrecate alla materia, arriva a evocare visioni, ricordi, sogni. Ecco il segno esile, ma nitido e fermo, che traccia alberi (Figure arancio in un paesaggio), forme umane (La petite promenade du poète), piccole teste, fiori spiraliformi (Nel bosco del poeta, Dove camminano i poeti), nuvole che paiono arche spaziali di una salvezza promessa o di un’invasione ostile (Figura Blu), pesci dalla simbologia così antica e pregnante... La maggiore complessità della materia pittorica e del segno rivelano una sorta di evoluzione genetica del lavoro di Iotti, come se la materia quasi bruta degli esordi, qua e là navigata da segni che non avevano alcuna pretesa di alludere al reale, ma parevano unicamente espressione di un gesto liberatorio, si fosse nel tempo ispessita e arricchita di fermenti, di colori, di linee che con maggiore nitidezza e felicità alludono ad un mondo fantastico che imperiosamente vuole venire alla luce. Pare dunque che la sua pittura abbia nel tempo subito la stessa maturazione genetica del farsi della vita, del mondo e delle cose, in cui si passa dal semplice al complesso.
Subito evoca, questa pittura, esperienze felici - le affinità elettive cui alludevo prima, dallo sguardo semplificatorio e incantato del Klee degli ultimi anni venti, ai viluppi di segni di Giacometti e di Wols, alla spontaneità di Dubuffet. Sono, queste visioni di Iotti, fatte dei colori della memoria e della nostalgia, e dei segni di un desiderio di ritorno a una stagione perduta di innocenza e di candore: il disegno “infantile” ci restituisce tutta la grazia e lo stupore di raccontare la vita come essa, purtroppo, raramente si dà. Forse esperienze come quelle di Iotti, o come quella di Claudio Calzolari - che si affida ad una materia più algida, quale le forme in resina - potevano nascere e svilupparsi in una terra, come la nostra, in cui l’esperienza dell’educazione dell’infanzia è divenuta cultura diffusa e condivisa.
Non posso fare a meno di immaginare Marino mentre, dentro il buio della notte, nel freddo del suo studio dipinge, e senza sentire la fatica o i rigori delle stagioni meno clementi, tutto preso da una visione lontana che sull’opera va prendendo forma, dall’evocazione di brani di una memoria lontana che riaffiora. Si manifesta, la visione, dentro la sofferenza, il travaglio, come se quei graffiti fossero anche il sismografo di una tensione e di un sommovimento interiori che devono tradursi in una lacerazione della materia: per accogliere una pur larvale figura, per passare dall’informale alla forma, la materia deve essere ferita, graffita - ogni buona terra cela, sotto la sua buccia, la vita.
C’è, del resto, in questa pittura un retaggio profondo di natura: la materia pittorica può in un qualche modo essere assimilata alla terra coltivata. Paiono, a volte, le stesure di Iotti un campo riarso, screpolato, colto nei periodi di siccità, che mostra le sue mutazioni, dalla semina al raccolto, che conosce il tempo del silenzio, e che respira le luci, i tepori, le asprezze delle stagioni.
La superficie del quadro diventa dunque una porzione di terra, un universo delimitato da confini e segnato da presenze vitali, in un alternarsi di stesure levigate e di solchi, di ferite, proprie dell’aratura e dell’atto successivo di collocare, dentro la terra, una presenza vitale - qualcosa di molto piccolo che saprà farsi grande.
In fondo, non poteva essere che l’informale la lingua di Iotti, non poteva che essere questa l’identità della sua pittura: lui sente il desiderio e il bisogno di fare rivivere e di seminare la memoria, di farla fermentare e germinare, in un grembo che non gli sia ostile, per preservarne la capacità di illuminare la vita.
di Sandro Parmiggiani, 2004
C’è una vulgata, cui tanti concorrono, secondo cui la storia dell’arte è fatta del succedersi di movimenti e linguaggi, da cui vengono espunte le esperienze solitarie, in un processo lineare, all’insegna di una sorta di evoluzione darwiniana che contempla progressivi avanzamenti - l’astrazione sarebbe dunque la naturale maturazione e l’inevitabile superamento della figurazione, che più non avrebbe cittadinanza... - e che, per quanto riguarda la realtà italiana, fa sì che si parta da Giotto e si approdi a Maurizio Catellan e a Vanessa Beecroft. Questa convinzione appare lontana dalle esperienze sia della storia dell’arte che dell’esistenza concreta, nelle quali si danno deviazioni, ritorni all’insegna di folgoranti scoperte, oscuramenti che poi si rivelano preziosi, e che pure dovrebbero insegnare quanto sia mal riposta la fiducia in un meccanicismo semplificatorio. Allo stesso modo, chi scrive diffida delle mode - che per natura transitano, sono effimere e hanno dunque la durata e il respiro breve di una stagione -, e mal sopporta chi, nel mondo dell’arte, sente il dovere di levarsi il cappello davanti alle tante furbizie di contenuti, di messaggi ideologici, di effetti speciali buoni solo a stupire, e alle approssimazioni di chi è spesso maestro, soprattutto, nel vendere il proprio, talvolta assai modesto, prodotto.
Questo diffuso senso comune s’accompagna spesso a un’altra convinzione: chi scrive di opere d’arte dovrebbe aborrire la definizione di “critico d’arte”, per assumere e ambire, invece, a quella, apparentemente molto più rassicurante e seria, di “storico dell’arte”. Ma qui i conti presto non tornano. Davanti al lavoro di alcuni giovani artisti, ci sono “storici” che subito gridano al miracolo, alla scoperta di una nuova, sconosciuta terra, mentre in verità quell’enfasi è sovente determinata da un vuoto di conoscenza, di memoria - e dunque da un abbaglio sull’effettiva novità di una proposta - delle vicende di alcuni degli anni più fervidi del Novecento, quelli che vanno dall’immediato dopoguerra a tutti gli anni Sessanta - un’analoga concentrazione di esperienze fondamentali c’era stata nei primi vent’anni dello stesso secolo. Per quanto mi riguarda, continuo a guardare con simpatia alla figura del “critico” perchè, personalmente, trovo che, ad esempio, su Rembrandt e sul chiaroscuro, si possa meglio essere illuminati dalle parole di Georges Simenon, il papà di Maigret, piuttosto forse che da quelle di testi divulgativi di tante storie dell’arte. Più che quella di “critici d’arte”, sarebbe opportuno adottare una vecchia dizione cara a Francesco Arcangeli, quella di compagni di strada - sfrondata dall’idea di una sorta di militanza, di tenace identificazione e fedeltà a un gruppo o a una tendenza, ma riconfermando l’esigenza di una salda tensione etica - o, se si vuole, di “affiancatori”, che cercano, con gli strumenti che hanno a disposizione, di contribuire a gettare altra luce, a distillare altro senso, oltre quelli propri dell’opera - una luce e un senso che essa può custodire nell’oscurità e nel silenzio.
Non intendo affatto, con questa introduzione, “prenderla alla larga”, come si usa fare, quando magari poche sono le cose che si hanno da dire su un autore e si devono comunque riempire le pagine pattuite. Non è, con Marino Iotti, affatto così. È che, di fronte al suo lavoro, mi pongo immediatamente una domanda: perchè egli ha sentito il bisogno, dopo un iniziale periodo figurativo che del resto non conosco, di adottare una lingua, l’informale, che tanti critici e storici à la page considerano, in quanto nata e già sperimentata cinquant’anni fa, morta e inesorabilmente non destinata a risorgere? Perchè dunque egli tuttora si ostina a esprimersi in questa lingua che non è affatto stata cancellata? La risposta che mi do può apparire, insieme, troppo banale e troppo semplice, ma mi pare colga un nucleo di verità: perchè le cose che Iotti ha da dire, le affinità elettive con una certa esperienza del passato che egli ha sentito e scoperto dentro di sè - in fondo, sperimentare, e poi scegliere di immettersi nel grande fiume di un percorso già da altri praticato, significa anche procedere al disvelamento delle proprie sensibilità -, chiamano quella lingua, nella quale l’atto creativo immediatamente si identifica, diventa tutt’uno con l’essere.
Molti anni fa Marino Iotti mi chiese di scrivere un breve testo sul suo lavoro che accompagnasse una sua mostra; ora questo invito si ripete ed è l’occasione di un bilancio. Subito mi accorgo che, da allora, la sua sintassi pittorica, pur in parte evolutasi e arricchitasi di elementi, resta nella sostanza la stessa: il suo approdo all’informale può ormai definirsi saldo e acquisito.
Immutati sono, in lui, pure l’entusiasmo e la passione di chi dedica tutto il proprio tempo all’esercizio della pittura. Lavora, Marino, in una stanza-studio disadorna che si trova nella stessa casa dove vive, ma con un altro accesso, quasi isolata e al margine dell’abitazione, senza i comfort della prima. Non solo il riscaldamento precario, ma tutto appare inospitale, rivela un luogo apparentemente ostile alla vita, nel quale invece, con ostinazione, il pittore continua a creare le proprie opere. Lavora, Iotti, con il fervore di chi sente che l’esercizio continuo, la pratica quotidiana, sono importanti, che un’adeguata tensione e capacità di esprimersi si raggiungono non a “freddo”, ma dentro un operare fatto di ostinati tentativi, nel corso del quali si può scoprire qualche pagliuzza d’oro, o qualche caduca illusione, o qualche strada sbarrata, lungo la quale non ci si può inoltrare - occorre, allora, il coraggio di fare ritorno a ciò che ci è più consono.
La pittura di Iotti non è, negli ultimi anni, come dicevo, mutata nella sostanza: allora come ora sono la materia e il segno gli strumenti elettivi del suo esprimersi. Certo, un tempo la materia, pur corposa, non aveva gli spessori e la variegata composizione che ora ha assunto, permettendo a Marino di scalfirla, di graffiarla, come si scavano solchi sulla terra per seminarla, o sulla corteccia di un albero, o su un muro, per tracciare un proprio segno di identificazione. La materia, oltre che ispessita, si è scaldata, impregnandosi di colori che talvolta s’accendono fino a un rosso sangue - come in Weiss, un’opera molto bella, dedicata al padre partigiano -, o si estenuano in toni caldi quali l’ocra, il giallo, l’arancione, l’azzurro, il blu, o lo stesso nero, che ha la funzione di introdurre a una sorta di cupa rievocazione - sono, le superfici nere, il luogo dove il segno può dispiegarsi con un nitore rivelatore della forma.
I dipinti di Iotti si costruiscono per campiture di materia-colore che paiono insediarsi e svilupparsi all’interno di linee diagonali che sorgono dal basso e svettano, si dispiegano verso l’alto - quasi che fossimo di fronte a una prospettiva che si apre in un movimento ascensionale, e a un’irruzione di vita vegetale sulla superficie dell’opera. Le stesse figure che Marino Iotti ha introdotto - questi grandi tronchi rettangolari dagli esili arti che si protendono in un precario equilibrio, colti in una invocazione che sa, insieme, di gioia e di disperazione - necessariamente si inscrivono in questa struttura dell’opera.
Non è allora forse casuale che queste figure abbiano un’aura solenne, ieratica, e che, guardandole, subito si pensi a idoli, a esseri spuntati direttamente dalla terra, che si ergono di fronte a noi come dopo una creazione o una risurrezione. Questo impianto - che in qualche modo fonde due diversi movimenti spaziali, una proprio della verticalità e l’altro della profondità, e che sembra aver catturato le vibrazioni e le pulsazioni di una composizione musicale -, non è tuttavia esclusivamente funzionale a puri rapporti tonali, di piani prospettici, di armonie che alternativamente allontanano o attraggono lo sguardo. Sono infatti anche pensate, queste tessere di colore, nella loro estensione e nelle loro relazioni, come grembo necessario alla semina e all’impiantarsi di un segno che, proprio attraverso le ferite arrecate alla materia, arriva a evocare visioni, ricordi, sogni. Ecco il segno esile, ma nitido e fermo, che traccia alberi (Figure arancio in un paesaggio), forme umane (La petite promenade du poète), piccole teste, fiori spiraliformi (Nel bosco del poeta, Dove camminano i poeti), nuvole che paiono arche spaziali di una salvezza promessa o di un’invasione ostile (Figura Blu), pesci dalla simbologia così antica e pregnante... La maggiore complessità della materia pittorica e del segno rivelano una sorta di evoluzione genetica del lavoro di Iotti, come se la materia quasi bruta degli esordi, qua e là navigata da segni che non avevano alcuna pretesa di alludere al reale, ma parevano unicamente espressione di un gesto liberatorio, si fosse nel tempo ispessita e arricchita di fermenti, di colori, di linee che con maggiore nitidezza e felicità alludono ad un mondo fantastico che imperiosamente vuole venire alla luce. Pare dunque che la sua pittura abbia nel tempo subito la stessa maturazione genetica del farsi della vita, del mondo e delle cose, in cui si passa dal semplice al complesso.
Subito evoca, questa pittura, esperienze felici - le affinità elettive cui alludevo prima, dallo sguardo semplificatorio e incantato del Klee degli ultimi anni venti, ai viluppi di segni di Giacometti e di Wols, alla spontaneità di Dubuffet. Sono, queste visioni di Iotti, fatte dei colori della memoria e della nostalgia, e dei segni di un desiderio di ritorno a una stagione perduta di innocenza e di candore: il disegno “infantile” ci restituisce tutta la grazia e lo stupore di raccontare la vita come essa, purtroppo, raramente si dà. Forse esperienze come quelle di Iotti, o come quella di Claudio Calzolari - che si affida ad una materia più algida, quale le forme in resina - potevano nascere e svilupparsi in una terra, come la nostra, in cui l’esperienza dell’educazione dell’infanzia è divenuta cultura diffusa e condivisa.
Non posso fare a meno di immaginare Marino mentre, dentro il buio della notte, nel freddo del suo studio dipinge, e senza sentire la fatica o i rigori delle stagioni meno clementi, tutto preso da una visione lontana che sull’opera va prendendo forma, dall’evocazione di brani di una memoria lontana che riaffiora. Si manifesta, la visione, dentro la sofferenza, il travaglio, come se quei graffiti fossero anche il sismografo di una tensione e di un sommovimento interiori che devono tradursi in una lacerazione della materia: per accogliere una pur larvale figura, per passare dall’informale alla forma, la materia deve essere ferita, graffita - ogni buona terra cela, sotto la sua buccia, la vita.
C’è, del resto, in questa pittura un retaggio profondo di natura: la materia pittorica può in un qualche modo essere assimilata alla terra coltivata. Paiono, a volte, le stesure di Iotti un campo riarso, screpolato, colto nei periodi di siccità, che mostra le sue mutazioni, dalla semina al raccolto, che conosce il tempo del silenzio, e che respira le luci, i tepori, le asprezze delle stagioni.
La superficie del quadro diventa dunque una porzione di terra, un universo delimitato da confini e segnato da presenze vitali, in un alternarsi di stesure levigate e di solchi, di ferite, proprie dell’aratura e dell’atto successivo di collocare, dentro la terra, una presenza vitale - qualcosa di molto piccolo che saprà farsi grande.
In fondo, non poteva essere che l’informale la lingua di Iotti, non poteva che essere questa l’identità della sua pittura: lui sente il desiderio e il bisogno di fare rivivere e di seminare la memoria, di farla fermentare e germinare, in un grembo che non gli sia ostile, per preservarne la capacità di illuminare la vita.