Paesaggi della memoria
di Massimo Mussini, 2014
La pittura di Marino Iotti, a venti anni di distanza da quando l’ho conosciuto, è indubbiamente cambiata e questo è un dato rivelatore della capacità e della volontà di rimettere in gioco se stesso, senza autocitarsi come fanno molti suoi colleghi paghi della raggiunta meta, oppure troppo pigri per rinnovarsi.
In questo lasso di tempo, però, Iotti ha mantenuto fedeltà a un certo modo di dipingere, all’attenzione per il valore del segno e del colore, che in un linguaggio espressivo aniconico, quale il suo, sono le strutture portanti dell’opera.
Non solo, nel suo lavoro recente ho ritrovato anche quel rapporto musicale interno a ciascun dipinto, che in passato avevo individuato come segno distintivo della sua personalità artistica.
Iotti, in questi anni, non ha rinunciato a riflettere con attenzione sulla pittura contemporanea, ad analizzarne le segmentazioni stilistiche per verificare le qualità e l’utilizzabilità delle diverse proposte artistiche. Lo scopo finale non era copiare (anche se Picasso trovava più pregevole ripetere gli altri che non rifare se stessi), ma intendere l’evoluzione incessante dell’arte per corrispondere al costante mutamento delle esperienze culturali.
L’artista, infatti, deve essere in grado comunicare con chi osserva la sua opera e trasmettergli messaggi che possono essere diretti (come nel caso della pittura realistica), oppure mediati attraverso l’uso di simboli e suggestioni psicologiche. Delle due vie Iotti ha scelto la seconda e delle diverse proposte formulate dall’arte novecentesca ha privilegiato la scrittura informale declinata secondo i modelli dell’espressionismo astratto. Detto così, sembrerebbe prontamente incasellato all’interno di uno “stile” ben definibile, ma in verità la questione non è tanto semplice, fortunatamente. Perché, se lo fosse, Iotti dimostrerebbe di essere un ripetitore di testi già scritti e non un attore che recita a soggetto.
Intorno al canovaccio dell’arte contemporanea, invece, egli compone liberamente, talvolta inventando battute nuove e talaltra citando formule linguistiche storicizzate per catturare l’attenzione, riconducendo l’osservatore all’interno di formule familiari al fine di prepararlo in tal modo ad accogliere il cambiamento.
In alcuni di questi suoi “paesaggi”, ad esempio, possiamo cogliere vaghi richiami ad Uncini e l’alfabeto di Licata o le scritture di Gastone Novelli o di Twombly sembrano echeggiati in altre tele; gli inserti materici e la stesura del colore a corpo ci fanno riandare a Burri o a Tàpies, mentre la partitura delle superfici a suddivisioni geometriche trova riferimenti più diramati. Nessuno è in grado di asserire, però, che i suoi dipinti siano realizzati alla maniera di uno di questi autori e neppure si può affermare che si tratti di citazioni fini a se stesse, bensì di elementi linguistici funzionali a costruire un discorso diverso e personale.
Gli effetti materici del colore a corpo sono oggi enfatizzati da inserti di legni e brandelli di tela e prevale nella sua pittura una partizione per superfici geometriche accordata alle gamme cromatiche, che sembrano obbedire a una ritmica precisa, in cui forma e colore si associano secondo un rapporto proporzionale più istintivo che matematicamente calcolato.
Non è dunque la razionalità dell’astrazione geometrica di Mondrian, di Albers o di Max Bill a regolare la struttura delle sue superfici, ma è l’impressione visiva filtrata dalla fluidità imprecisa della memoria, che genera armonie personali, scaturite dal sentimento più che dalla ragione.
Solo in questo modo si giustifica la contraddizione fra il risultato visivo delle sue opere e la loro titolazione. La parola “paesaggio”, infatti, ci evoca immediatamente l’immagine di luoghi riconoscibili nella loro morfologia, al contrario di quanto fanno le tele di Iotti, che non rappresentano forme naturali o antropizzate, ma ne evocano la percezione emotiva, alla stregua degli Incendi alle Cinque Terre di Birolli e dei paesaggi di Nicolas de Staël. Sembra, insomma, di essere davanti ai ricordi di visioni topografiche, rese imprecise dal sedimento del tempo e soprattutto dall’accumulo di associazioni mentali da esse suscitate.
Accennavo, in apertura, alla presenza fin nei primi lavori di Iotti di un rapporto “musicale” interno a ciascuna opera e tale relazione si conferma con grande chiarezza in questi suoi lavori recenti, dove forma e colore dialogano muovendo da un numero limitato di geometrie e di toni cromatici, che si intrecciano in brevi arpeggi e si ripetono come un’eco di consonanze, in modo assai simile al Preludio e Fuga in do maggiore che apre il primo libro del Clavicembalo ben temprato di Bach.
di Massimo Mussini, 2014
La pittura di Marino Iotti, a venti anni di distanza da quando l’ho conosciuto, è indubbiamente cambiata e questo è un dato rivelatore della capacità e della volontà di rimettere in gioco se stesso, senza autocitarsi come fanno molti suoi colleghi paghi della raggiunta meta, oppure troppo pigri per rinnovarsi.
In questo lasso di tempo, però, Iotti ha mantenuto fedeltà a un certo modo di dipingere, all’attenzione per il valore del segno e del colore, che in un linguaggio espressivo aniconico, quale il suo, sono le strutture portanti dell’opera.
Non solo, nel suo lavoro recente ho ritrovato anche quel rapporto musicale interno a ciascun dipinto, che in passato avevo individuato come segno distintivo della sua personalità artistica.
Iotti, in questi anni, non ha rinunciato a riflettere con attenzione sulla pittura contemporanea, ad analizzarne le segmentazioni stilistiche per verificare le qualità e l’utilizzabilità delle diverse proposte artistiche. Lo scopo finale non era copiare (anche se Picasso trovava più pregevole ripetere gli altri che non rifare se stessi), ma intendere l’evoluzione incessante dell’arte per corrispondere al costante mutamento delle esperienze culturali.
L’artista, infatti, deve essere in grado comunicare con chi osserva la sua opera e trasmettergli messaggi che possono essere diretti (come nel caso della pittura realistica), oppure mediati attraverso l’uso di simboli e suggestioni psicologiche. Delle due vie Iotti ha scelto la seconda e delle diverse proposte formulate dall’arte novecentesca ha privilegiato la scrittura informale declinata secondo i modelli dell’espressionismo astratto. Detto così, sembrerebbe prontamente incasellato all’interno di uno “stile” ben definibile, ma in verità la questione non è tanto semplice, fortunatamente. Perché, se lo fosse, Iotti dimostrerebbe di essere un ripetitore di testi già scritti e non un attore che recita a soggetto.
Intorno al canovaccio dell’arte contemporanea, invece, egli compone liberamente, talvolta inventando battute nuove e talaltra citando formule linguistiche storicizzate per catturare l’attenzione, riconducendo l’osservatore all’interno di formule familiari al fine di prepararlo in tal modo ad accogliere il cambiamento.
In alcuni di questi suoi “paesaggi”, ad esempio, possiamo cogliere vaghi richiami ad Uncini e l’alfabeto di Licata o le scritture di Gastone Novelli o di Twombly sembrano echeggiati in altre tele; gli inserti materici e la stesura del colore a corpo ci fanno riandare a Burri o a Tàpies, mentre la partitura delle superfici a suddivisioni geometriche trova riferimenti più diramati. Nessuno è in grado di asserire, però, che i suoi dipinti siano realizzati alla maniera di uno di questi autori e neppure si può affermare che si tratti di citazioni fini a se stesse, bensì di elementi linguistici funzionali a costruire un discorso diverso e personale.
Gli effetti materici del colore a corpo sono oggi enfatizzati da inserti di legni e brandelli di tela e prevale nella sua pittura una partizione per superfici geometriche accordata alle gamme cromatiche, che sembrano obbedire a una ritmica precisa, in cui forma e colore si associano secondo un rapporto proporzionale più istintivo che matematicamente calcolato.
Non è dunque la razionalità dell’astrazione geometrica di Mondrian, di Albers o di Max Bill a regolare la struttura delle sue superfici, ma è l’impressione visiva filtrata dalla fluidità imprecisa della memoria, che genera armonie personali, scaturite dal sentimento più che dalla ragione.
Solo in questo modo si giustifica la contraddizione fra il risultato visivo delle sue opere e la loro titolazione. La parola “paesaggio”, infatti, ci evoca immediatamente l’immagine di luoghi riconoscibili nella loro morfologia, al contrario di quanto fanno le tele di Iotti, che non rappresentano forme naturali o antropizzate, ma ne evocano la percezione emotiva, alla stregua degli Incendi alle Cinque Terre di Birolli e dei paesaggi di Nicolas de Staël. Sembra, insomma, di essere davanti ai ricordi di visioni topografiche, rese imprecise dal sedimento del tempo e soprattutto dall’accumulo di associazioni mentali da esse suscitate.
Accennavo, in apertura, alla presenza fin nei primi lavori di Iotti di un rapporto “musicale” interno a ciascuna opera e tale relazione si conferma con grande chiarezza in questi suoi lavori recenti, dove forma e colore dialogano muovendo da un numero limitato di geometrie e di toni cromatici, che si intrecciano in brevi arpeggi e si ripetono come un’eco di consonanze, in modo assai simile al Preludio e Fuga in do maggiore che apre il primo libro del Clavicembalo ben temprato di Bach.