Testo critico
di Giuseppe Berti 2005
In suo breve saggio su Antoni Tàpies, Maurizio Calvesi ebbe a scrivere, ormai molto tempo fa, che il grande artista spagnolo era “pittore capace di insinuare in noi un’insolita e scarna meraviglia, un’emozione di enigma, di ammonimento e di memoria”.
Ecco, pur con il dovuto rispetto degli ordini di grandezza, ci pare che questa osservazione valga anche per Marino Iotti, pittore di materia e di segno, pittore in cui questa materia e questo segno sembrano cambiare continuamente di ruolo con turbata, enigmatica, lirica intensità.
Dunque la materia: che è una superficie scabra e dissestata, una porosa terra carsica, che è una creta opaca, un eroso palinsesto di vecchi intonaci offesi dal tempo e dagli uomini.
Il segno, infine: che è un reticolo sottile di graffi e ferite, di incise ragnatele, di sigle sommarie ed incerti alfabeti, parole disperse che ricordano frammenti di poesie, oscuri pentagrammi di misteriosi sciamani, labirinti rituali.
Artista di articolata cultura visiva, Marino Iotti si presenta perciò in questo modo, ovvero con questa sua duplice identità, alchemica coincidentia oppositorum tra segno e materia, tra forma ed informe, ordine e disordine, verticalità e profondità pur entro un orizzonte bidimensionale.
Ora qualcuno potrebbe essere tentato di interpretare la cifra stilistica del pittore come una rielaborazione, in chiave di contemporaneità, dei linguaggi informali, e certo non mancano nell’albero genealogico di Iotti nomi di “antenati” che quei linguaggi usarono con accenti di profondissima poesia; tuttavia questa si rivelerebbe una lettura solo parziale, se non del tutto fuorviante, della poetica dell’artista. In lui, infatti, s’avverte sempre l’eco di un meditato ordine compositivo, l’eco, sia pur rarefatta, di un equilibrio formale che in ogni caso impedisce alla materia e al segno di cedere alla tentazione febbrile del caos, alla violenta risacca in cui ribolle, caotica appunto, la pennellata/colore che fu cara, tra ribellione romantica ed esistenziale, a tanti pittori delle culture informali tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso.
Iotti affida piuttosto il suo originale, umbratile esprit de geometrie a rettangoli sghembi, a quadrati approssimativi e incompleti dove talora affiora incerta una larvale presenza d’immagine; ma dove pure il precario, verticale equilibrio su cui queste tessere di materia/colore si reggono - sostenute come sono da fragili e sconnessi tralicci - scardina ogni principio di plastica saldezza, di forza volumetrica ed ogni illusione di spazio a tre dimensioni.
Tuttavia risuona di profondità e di arcani spazi l’opera di Iotti, vibra di lontani altrove perché lo sguardo tende ad andare “al di là delle cose”, vorrebbe penetrare il lastrico sordo della materia, la sua intelaiatura calcificata ed aspra per riuscire ad attingere, attraverso i graffi, gli incisi segni e le stigmate di cui questa materia sembra subire il martirio, l’ungarettiano “nulla d’inesauribile segreto” che essa racchiude dentro di sé, o quell’emozione d’enigma di cui parlava Calvesi.
Scorre infatti su queste crete d’ocra e di gialli riarsi il sentimento del tempo, vi si depositano, come stratificazione di antiche sinopie, storie, memorie, racconti, geroglifici, tracce di arcaici alfabeti e di immagini che appartengono ad un passato remoto.
Un palinsesto è dunque l’opera di Iotti, parola che in origine (prima che l’orrendo linguaggio televisivo stravolgesse ogni cosa) significava manoscritto antico su pergamena nel quale la scrittura è stata sovrapposta ad altra precedente, raschiata o comunque parzialmente cancellata. E palinsesto si usa anche per quelle pareti di antiche chiese o palazzi su cui, nel tempo, si sono sovrapposti intonaci d’epoche diverse ed affreschi di cui ora rimangono frammenti, sparsi lacerti, ombre di immagini: elementi, tutti questi, che costituiscono anche l’identità prima dei muri di Iotti, di questi strati di intonaci “vissuti” ove predomina il timbro caldo, ma poroso ed aspro, delle ocre che talora s’impregnano d’altri colori; ceneri grigie, ed opache terre, gialli deserto, nere argille o azzurri dilavati e pallidi.
Ed è da queste scrostate pareti che affiorano infine i segni, le immagini, le disarticolate parole; affiorano, ma non si danno mai per intero. Così che è facile sperdersi tra questi incisi reticoli, nelle trame delle linee d’ombra, nelle lettere, nei geroglifici e nelle primordiali figure: forme simboliche forse di rituali sciamanici? O testi oracolari di civiltà perdute? Oppure disperata voce di un uomo che sulle pareti del proprio carcere, quello dell’anima, scrive di sé, e poi cancella e di nuovo riscrive? Ma un altro simbolo, un’altra metafora vengono in mente ancora: forse che questi rettangoli sospesi su esili fili sono scarnificate figure di idoli, ieratica e pura essenza di un dio primordiale, oppure indecifrabili, enigmatiche tessere sapienziali di un’epoca arcaica su cui viene incisa la sorte degli uomini?
Ma è proprio in questa molteplicità di lettura il fascino dei dipinti di Iotti: che celano segreti, che offrono, ad un tempo, la possibilità di leggervi molti universi e l’impossibilità di svelarli del tutto.
E se è vero allora - come diceva un filosofo, Andrea Emo - in una sua abbagliante osservazione - “che l’arte dello scrivere è l’arte di far dire alla parole tutte le trasmutazioni che esse contengono e sono”, l’arte della pittura sarà quella di far dire alle immagini tutte le trasmutazioni e le identità e i diversi campi semantici che esse contengono e sono: poiché l’arte - sosteneva sempre il filosofo - è “essenzialmente una metamorfosi, una metamorfosi d’identità dell’immagine, l’orizzonte di un’infinità diversità.”
Crediamo che Marino Iotti, artista capace di trasfigurare la materia e di farle percorrere la strada di infinite diversità, possa condividere questa riflessione; crediamo inoltre che il nostro artista possa altresì condividere l’altra idea del filosofo secondo cui l’arte è continua resurrezione e negazione dell’immagine, che così diventa annuncio della metamorfosi a cui anche il tempo è soggetto.
Ora, nella filtrata eleganza e nel rigore compositivo delle sua opera, Marino Iotti, almeno a noi così pare, ci offre dunque questa sapiente idea dell’arte come luogo di trasmutazioni e di enigmi. Un luogo che consente un continuo mutamento di ruolo tra la materia ed il segno (che qui si trasforma in sua sindone) e che mai, tuttavia,
svelano fino in fondo la cifra ultima di un loro inafferrabile enigma – musicale e poetico; che mai ci offrono la percezione che la fragile barriera degli intonaci si possa finalmente aprire del tutto per farci partecipe di quell’inesauribile segreto celato nei segni o negli sconnessi alfabeti incisi, cancellati e riscritti sui “muri” di Iotti.
Ma tutto questo, a ben vedere, appartiene appunto a quell’inesauribile segreto di cui parlava Ungaretti e di cui l’arte continua ancora e sempre ad alimentarsi…
di Giuseppe Berti 2005
In suo breve saggio su Antoni Tàpies, Maurizio Calvesi ebbe a scrivere, ormai molto tempo fa, che il grande artista spagnolo era “pittore capace di insinuare in noi un’insolita e scarna meraviglia, un’emozione di enigma, di ammonimento e di memoria”.
Ecco, pur con il dovuto rispetto degli ordini di grandezza, ci pare che questa osservazione valga anche per Marino Iotti, pittore di materia e di segno, pittore in cui questa materia e questo segno sembrano cambiare continuamente di ruolo con turbata, enigmatica, lirica intensità.
Dunque la materia: che è una superficie scabra e dissestata, una porosa terra carsica, che è una creta opaca, un eroso palinsesto di vecchi intonaci offesi dal tempo e dagli uomini.
Il segno, infine: che è un reticolo sottile di graffi e ferite, di incise ragnatele, di sigle sommarie ed incerti alfabeti, parole disperse che ricordano frammenti di poesie, oscuri pentagrammi di misteriosi sciamani, labirinti rituali.
Artista di articolata cultura visiva, Marino Iotti si presenta perciò in questo modo, ovvero con questa sua duplice identità, alchemica coincidentia oppositorum tra segno e materia, tra forma ed informe, ordine e disordine, verticalità e profondità pur entro un orizzonte bidimensionale.
Ora qualcuno potrebbe essere tentato di interpretare la cifra stilistica del pittore come una rielaborazione, in chiave di contemporaneità, dei linguaggi informali, e certo non mancano nell’albero genealogico di Iotti nomi di “antenati” che quei linguaggi usarono con accenti di profondissima poesia; tuttavia questa si rivelerebbe una lettura solo parziale, se non del tutto fuorviante, della poetica dell’artista. In lui, infatti, s’avverte sempre l’eco di un meditato ordine compositivo, l’eco, sia pur rarefatta, di un equilibrio formale che in ogni caso impedisce alla materia e al segno di cedere alla tentazione febbrile del caos, alla violenta risacca in cui ribolle, caotica appunto, la pennellata/colore che fu cara, tra ribellione romantica ed esistenziale, a tanti pittori delle culture informali tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso.
Iotti affida piuttosto il suo originale, umbratile esprit de geometrie a rettangoli sghembi, a quadrati approssimativi e incompleti dove talora affiora incerta una larvale presenza d’immagine; ma dove pure il precario, verticale equilibrio su cui queste tessere di materia/colore si reggono - sostenute come sono da fragili e sconnessi tralicci - scardina ogni principio di plastica saldezza, di forza volumetrica ed ogni illusione di spazio a tre dimensioni.
Tuttavia risuona di profondità e di arcani spazi l’opera di Iotti, vibra di lontani altrove perché lo sguardo tende ad andare “al di là delle cose”, vorrebbe penetrare il lastrico sordo della materia, la sua intelaiatura calcificata ed aspra per riuscire ad attingere, attraverso i graffi, gli incisi segni e le stigmate di cui questa materia sembra subire il martirio, l’ungarettiano “nulla d’inesauribile segreto” che essa racchiude dentro di sé, o quell’emozione d’enigma di cui parlava Calvesi.
Scorre infatti su queste crete d’ocra e di gialli riarsi il sentimento del tempo, vi si depositano, come stratificazione di antiche sinopie, storie, memorie, racconti, geroglifici, tracce di arcaici alfabeti e di immagini che appartengono ad un passato remoto.
Un palinsesto è dunque l’opera di Iotti, parola che in origine (prima che l’orrendo linguaggio televisivo stravolgesse ogni cosa) significava manoscritto antico su pergamena nel quale la scrittura è stata sovrapposta ad altra precedente, raschiata o comunque parzialmente cancellata. E palinsesto si usa anche per quelle pareti di antiche chiese o palazzi su cui, nel tempo, si sono sovrapposti intonaci d’epoche diverse ed affreschi di cui ora rimangono frammenti, sparsi lacerti, ombre di immagini: elementi, tutti questi, che costituiscono anche l’identità prima dei muri di Iotti, di questi strati di intonaci “vissuti” ove predomina il timbro caldo, ma poroso ed aspro, delle ocre che talora s’impregnano d’altri colori; ceneri grigie, ed opache terre, gialli deserto, nere argille o azzurri dilavati e pallidi.
Ed è da queste scrostate pareti che affiorano infine i segni, le immagini, le disarticolate parole; affiorano, ma non si danno mai per intero. Così che è facile sperdersi tra questi incisi reticoli, nelle trame delle linee d’ombra, nelle lettere, nei geroglifici e nelle primordiali figure: forme simboliche forse di rituali sciamanici? O testi oracolari di civiltà perdute? Oppure disperata voce di un uomo che sulle pareti del proprio carcere, quello dell’anima, scrive di sé, e poi cancella e di nuovo riscrive? Ma un altro simbolo, un’altra metafora vengono in mente ancora: forse che questi rettangoli sospesi su esili fili sono scarnificate figure di idoli, ieratica e pura essenza di un dio primordiale, oppure indecifrabili, enigmatiche tessere sapienziali di un’epoca arcaica su cui viene incisa la sorte degli uomini?
Ma è proprio in questa molteplicità di lettura il fascino dei dipinti di Iotti: che celano segreti, che offrono, ad un tempo, la possibilità di leggervi molti universi e l’impossibilità di svelarli del tutto.
E se è vero allora - come diceva un filosofo, Andrea Emo - in una sua abbagliante osservazione - “che l’arte dello scrivere è l’arte di far dire alla parole tutte le trasmutazioni che esse contengono e sono”, l’arte della pittura sarà quella di far dire alle immagini tutte le trasmutazioni e le identità e i diversi campi semantici che esse contengono e sono: poiché l’arte - sosteneva sempre il filosofo - è “essenzialmente una metamorfosi, una metamorfosi d’identità dell’immagine, l’orizzonte di un’infinità diversità.”
Crediamo che Marino Iotti, artista capace di trasfigurare la materia e di farle percorrere la strada di infinite diversità, possa condividere questa riflessione; crediamo inoltre che il nostro artista possa altresì condividere l’altra idea del filosofo secondo cui l’arte è continua resurrezione e negazione dell’immagine, che così diventa annuncio della metamorfosi a cui anche il tempo è soggetto.
Ora, nella filtrata eleganza e nel rigore compositivo delle sua opera, Marino Iotti, almeno a noi così pare, ci offre dunque questa sapiente idea dell’arte come luogo di trasmutazioni e di enigmi. Un luogo che consente un continuo mutamento di ruolo tra la materia ed il segno (che qui si trasforma in sua sindone) e che mai, tuttavia,
svelano fino in fondo la cifra ultima di un loro inafferrabile enigma – musicale e poetico; che mai ci offrono la percezione che la fragile barriera degli intonaci si possa finalmente aprire del tutto per farci partecipe di quell’inesauribile segreto celato nei segni o negli sconnessi alfabeti incisi, cancellati e riscritti sui “muri” di Iotti.
Ma tutto questo, a ben vedere, appartiene appunto a quell’inesauribile segreto di cui parlava Ungaretti e di cui l’arte continua ancora e sempre ad alimentarsi…