Testo critico
di Giuliana Galli, 1986
La prima fase artistica di Marino Iotti è dedicata ad un filone ecologico, dominato da forme aguzze di alberi scheletrici e puntuti, dai rami smozzicati e radici contorte che s’intrecciano, abbarbicandosi all’humus di una padanità terragna in cui s’avverte il disagio della tecnologia incombente come una minaccia che rischia di intaccare in modo irreversibile l’equilibrio tra uomo e natura, primordialmente fusi in un’entità omogeneamente inscindibile.
Un’evoluzione di questa dissennata corsa in avanti è caratterizzata da uno strano fenomeno di osmosi tra entità vegetale e certi congegni meccanici che trovano una loro anomala sintonia. Questo curioso mimetismo vegetale rasenta la parodia della civiltà delle macchine, sintomo allarmante di una società cibernetica dominata dal tecnicismo. L’impianto formale di queste opere è soverchiato da volumi sintetici, forme sghembe di profili taglienti come lamiere, che si biforcano, protendendosi a solcare un cielo inanimato come tenaglie, lame slabbrate, forme acuminate come vetri infranti, stagliandosi vibranti su sagome di edifici tozzi.
Queste forme sembrano palpitare, animate da un fremito che ne sconvolge l’assetto che sembra sul punto di assumere un nuovo registro, assecondando un ritmo nascosto di forme elementari, che s’assiepano contendendosi empaticamente lo spazio sul fondo.
Si respira aria di costruttivismo, per questa germinazione meccanica “in fieri”, in sintonia con i dettami del 2° futurismo sintetizzati dal manifesto della “ricostruzione futurista dell’universo”: una realtà proteiforme, dominata dalla macchina e dal funzionalismo.
In queste opere recenti di Iotti, siamo di fronte ad una fase di ricerca i cui esiti sono imprevedibili, ma probabilmente proiettati verso una ulteriore sintesi, fino all’astrazione. La tavolozza è caratterizzata da tonalità delicate, una gamma di azzurri che degrada da tonalità intense fino al viola, che illividisce spiccando cupo tra i grigi che sbadigliano tra i limiti aguzzi di forme geometriche,verdi acidi, che danno spessore a lacerti guizzanti di entità fitomorfe che si insinuano come brividi di luce, a portare un accento lirico nella plumbea compagine dell’assetto meccanico dell’impianto formale.
In altre tele la natura è tradotta in forme stilizzate, verdi segmenti che costituiscono un limite all’espansione delle forme che, proiettandosi verso l’alto, assumono linee e volumi longitudinali, dotati di un loro equilibrio di forme e colori: un’intera gamma di versi, che si anima per un accento dorato, o si tinge di un rosa tenero, soffuso come un fiore prezioso nel folto di una vegetazione geometrica.
In un’altra opera si intuiscono le sagome di forme umane, ritagliate all’osso, nei contorni netti e vibranti, intente a un colloquio, che sembrano muoversi in uno scenario teatrale. In un quadro molto equilibrato questi profili sembrano assottigliarsi fino alla negazione della forma e alla smaterializzazione del volume, come corolle screziate di forme ibride che si schiudono volteggiando, sprigionando un umore segreto che emana dal loro cuore vegetale: tutto vibra, si contorce spasima in un viluppo di forme armoniose che si snodano, proiettandosi verso l’alto, in una progressiva estenuazione formale, fino alla sintesi.
Ed ecco una virgola di luce, un accento cromatico a fungere da segno di interpunzione e chiave in una sinfonia di forme e colori, che si animano per il contrasto ben calibrato tra toni freddi e caldi sullo spartito cromatico. In particolare risulta ben impaginata un’opera, tradotta in tasselli guizzanti di un mosaico palpitante: segmenti, sprazzi di luce, vampate dorate che ne animano la compagine, risolta in una trama di forme dinamiche i cui profili si fondano in un’amalgama di toni brillanti: certi verdi intensi che spiccano in un coacervo di volumi sintetici i cui contorni nitidi si addolciscono in forme sinusoidali. Il piglio danzante di queste composizioni è prodotto da curve che si spezzano, per l’imprevista intromissione di un angolo, di un profilo dentellato, fino a creare una giungla policroma di forme geometriche desuete. Come ne “il sogno di una notte di mezza estate” tutto si anima prodigiosamente mentre si avvertono misteriosi sussurri e si profilano ombre inquietanti, mentre le forme proliferano, formando una cortina cromatica. Il taglio della composizione presenta una curiosa affinità con certe opere del Blaue Reiter, in cui il paesaggio è uno scampolo di sagome e forme vegetali, sintesi ed equazione formale di varietà fitomorfe e il colore è risolto in tacche radiose, tocchi intensi e danzanti, incapsulati in campiture nette i cui profili ne costituiscono la salda impaginatura formale.
Marino Iotti avverte il fascino discreto della sintesi, quell’arte del “levare” già cara al Vasari e alla suggestione intensa del colore che sgorga come fiotto di luce dal magma materico, prendendo una solenne rivincita, dopo la mortificazione di un eccesso di sobrietà, una modulazione di toni fin troppo pacati e smorti, in sintonia con il monocromatismo degli inverni padani in cui prevalgono le “terre” sui pochi toni di pastello.
Ora invece, si ha il prodigio della germinazione cromatica: gemme di pura luce, tacche di colore intenso che sbocciano e conoscono una gamma di varietà cromatiche, soggette come sono a una incessante metamorfosi come in un caleidoscopio.
di Giuliana Galli, 1986
La prima fase artistica di Marino Iotti è dedicata ad un filone ecologico, dominato da forme aguzze di alberi scheletrici e puntuti, dai rami smozzicati e radici contorte che s’intrecciano, abbarbicandosi all’humus di una padanità terragna in cui s’avverte il disagio della tecnologia incombente come una minaccia che rischia di intaccare in modo irreversibile l’equilibrio tra uomo e natura, primordialmente fusi in un’entità omogeneamente inscindibile.
Un’evoluzione di questa dissennata corsa in avanti è caratterizzata da uno strano fenomeno di osmosi tra entità vegetale e certi congegni meccanici che trovano una loro anomala sintonia. Questo curioso mimetismo vegetale rasenta la parodia della civiltà delle macchine, sintomo allarmante di una società cibernetica dominata dal tecnicismo. L’impianto formale di queste opere è soverchiato da volumi sintetici, forme sghembe di profili taglienti come lamiere, che si biforcano, protendendosi a solcare un cielo inanimato come tenaglie, lame slabbrate, forme acuminate come vetri infranti, stagliandosi vibranti su sagome di edifici tozzi.
Queste forme sembrano palpitare, animate da un fremito che ne sconvolge l’assetto che sembra sul punto di assumere un nuovo registro, assecondando un ritmo nascosto di forme elementari, che s’assiepano contendendosi empaticamente lo spazio sul fondo.
Si respira aria di costruttivismo, per questa germinazione meccanica “in fieri”, in sintonia con i dettami del 2° futurismo sintetizzati dal manifesto della “ricostruzione futurista dell’universo”: una realtà proteiforme, dominata dalla macchina e dal funzionalismo.
In queste opere recenti di Iotti, siamo di fronte ad una fase di ricerca i cui esiti sono imprevedibili, ma probabilmente proiettati verso una ulteriore sintesi, fino all’astrazione. La tavolozza è caratterizzata da tonalità delicate, una gamma di azzurri che degrada da tonalità intense fino al viola, che illividisce spiccando cupo tra i grigi che sbadigliano tra i limiti aguzzi di forme geometriche,verdi acidi, che danno spessore a lacerti guizzanti di entità fitomorfe che si insinuano come brividi di luce, a portare un accento lirico nella plumbea compagine dell’assetto meccanico dell’impianto formale.
In altre tele la natura è tradotta in forme stilizzate, verdi segmenti che costituiscono un limite all’espansione delle forme che, proiettandosi verso l’alto, assumono linee e volumi longitudinali, dotati di un loro equilibrio di forme e colori: un’intera gamma di versi, che si anima per un accento dorato, o si tinge di un rosa tenero, soffuso come un fiore prezioso nel folto di una vegetazione geometrica.
In un’altra opera si intuiscono le sagome di forme umane, ritagliate all’osso, nei contorni netti e vibranti, intente a un colloquio, che sembrano muoversi in uno scenario teatrale. In un quadro molto equilibrato questi profili sembrano assottigliarsi fino alla negazione della forma e alla smaterializzazione del volume, come corolle screziate di forme ibride che si schiudono volteggiando, sprigionando un umore segreto che emana dal loro cuore vegetale: tutto vibra, si contorce spasima in un viluppo di forme armoniose che si snodano, proiettandosi verso l’alto, in una progressiva estenuazione formale, fino alla sintesi.
Ed ecco una virgola di luce, un accento cromatico a fungere da segno di interpunzione e chiave in una sinfonia di forme e colori, che si animano per il contrasto ben calibrato tra toni freddi e caldi sullo spartito cromatico. In particolare risulta ben impaginata un’opera, tradotta in tasselli guizzanti di un mosaico palpitante: segmenti, sprazzi di luce, vampate dorate che ne animano la compagine, risolta in una trama di forme dinamiche i cui profili si fondano in un’amalgama di toni brillanti: certi verdi intensi che spiccano in un coacervo di volumi sintetici i cui contorni nitidi si addolciscono in forme sinusoidali. Il piglio danzante di queste composizioni è prodotto da curve che si spezzano, per l’imprevista intromissione di un angolo, di un profilo dentellato, fino a creare una giungla policroma di forme geometriche desuete. Come ne “il sogno di una notte di mezza estate” tutto si anima prodigiosamente mentre si avvertono misteriosi sussurri e si profilano ombre inquietanti, mentre le forme proliferano, formando una cortina cromatica. Il taglio della composizione presenta una curiosa affinità con certe opere del Blaue Reiter, in cui il paesaggio è uno scampolo di sagome e forme vegetali, sintesi ed equazione formale di varietà fitomorfe e il colore è risolto in tacche radiose, tocchi intensi e danzanti, incapsulati in campiture nette i cui profili ne costituiscono la salda impaginatura formale.
Marino Iotti avverte il fascino discreto della sintesi, quell’arte del “levare” già cara al Vasari e alla suggestione intensa del colore che sgorga come fiotto di luce dal magma materico, prendendo una solenne rivincita, dopo la mortificazione di un eccesso di sobrietà, una modulazione di toni fin troppo pacati e smorti, in sintonia con il monocromatismo degli inverni padani in cui prevalgono le “terre” sui pochi toni di pastello.
Ora invece, si ha il prodigio della germinazione cromatica: gemme di pura luce, tacche di colore intenso che sbocciano e conoscono una gamma di varietà cromatiche, soggette come sono a una incessante metamorfosi come in un caleidoscopio.