Testo critico
di Gian Luca Ferrari, 1992
Pittura volitiva a tratti aggressiva mai “scomposta”, nei cui pezzi migliori si può ricordare certa marca della tradizione esistenzialista del “sublime rovesciato”; da Shuterland a Blake (come ricerca della frontiera fra umano, divino e diabolico) nonchè il sentimento “Turneriano” dell’unità di uomo e natura.
Pittura che sfugge la forma tempestando, segnando e strisciando la tela con segni falcati (spontanea traiettoria psicomotoria dell’uomo bambino), ed è un intero universo interiore che si mobilita in pochi centimetri di spazio, smosso anche (a me pare al di là delle letture formali) da una presente istanza morale.
La forma-colore di una natura che eccita la materia si scaraventa: fluttua, deflagra, implode, sbatte, scatta, salta, si rincorre, s’impenna e si disfa, cercando di uscire dai desertici perimetri ortogonali e “viziosi” di una ragione che figura l’uomo (forse non a caso inesistente in questi lavori di un pittore un tempo figurativo) solo in termini di apparenza sociale, e dove la natura non fa più problema perchè scissa dall’uomo, e perchè bene poco prima della fine.
Bene perduto, ma ancora evocato da lontano (e da vicinissimo) nell’unica, ormai, unità possibile di uomo e natura, quella visiva, nella sublime congiunzione di chi guarda e della cosa guardata.
Bene perduto, ma ancora scrutato di lontano nei mondi infiniti (come la terra vista dalla luna, o chissà da quale altro pianeta) dei bellissimi tondi avvolti laggiù da quali “ultime tempeste”, ma dove comunque non pare che l’uomo (e l’arte) possa avere una forma o un progetto, bensì solo un destino.
di Gian Luca Ferrari, 1992
Pittura volitiva a tratti aggressiva mai “scomposta”, nei cui pezzi migliori si può ricordare certa marca della tradizione esistenzialista del “sublime rovesciato”; da Shuterland a Blake (come ricerca della frontiera fra umano, divino e diabolico) nonchè il sentimento “Turneriano” dell’unità di uomo e natura.
Pittura che sfugge la forma tempestando, segnando e strisciando la tela con segni falcati (spontanea traiettoria psicomotoria dell’uomo bambino), ed è un intero universo interiore che si mobilita in pochi centimetri di spazio, smosso anche (a me pare al di là delle letture formali) da una presente istanza morale.
La forma-colore di una natura che eccita la materia si scaraventa: fluttua, deflagra, implode, sbatte, scatta, salta, si rincorre, s’impenna e si disfa, cercando di uscire dai desertici perimetri ortogonali e “viziosi” di una ragione che figura l’uomo (forse non a caso inesistente in questi lavori di un pittore un tempo figurativo) solo in termini di apparenza sociale, e dove la natura non fa più problema perchè scissa dall’uomo, e perchè bene poco prima della fine.
Bene perduto, ma ancora evocato da lontano (e da vicinissimo) nell’unica, ormai, unità possibile di uomo e natura, quella visiva, nella sublime congiunzione di chi guarda e della cosa guardata.
Bene perduto, ma ancora scrutato di lontano nei mondi infiniti (come la terra vista dalla luna, o chissà da quale altro pianeta) dei bellissimi tondi avvolti laggiù da quali “ultime tempeste”, ma dove comunque non pare che l’uomo (e l’arte) possa avere una forma o un progetto, bensì solo un destino.