Testo critico
di Francesca Baboni, 2005
Graffio e materia. O se vogliamo cambiare i termini, materia graffita. Sono due le componenti formali della poetica di Marino Iotti, assemblate assieme all’interno di un lavoro finito che prevede un processo di sovrapposizione. Pittura. Che riempie lo sfondo oppure è graffiata via, strappata, ma che lascia comunque una sua impronta, energetica e sporca. Un sostrato pittorico che si mostra sotto forma di scavature a più livelli, nel cuore della superficie. Graffio. A metà strada tra lo spontaneismo vitalistico e irriverente di Keith Haring, l’art brut primitiva di Dubuffet e gli scarabocchi infantili dell’enfant terrible pupillo di Warhol, morto a soli 27 anni per overdose, Jean-Michel Basquiat. Graffio come un graffito inciso su un muro. Ma che, al contrario della traccia rabbiosa e provocatoria dei kids newyorkesi, non è una grafia sconosciuta, uniforme o puramente formale, elaborata sotto l’effetto delle anfetamine e basata su di una visualità metropolitana adrenalinica. Così come la materia corposa presente nei quadri non è un informale fine a se stesso, nè si carica di accezioni negative come l’amalgama sofferente e pastoso degli Outages di Fautrier. Marino Iotti ha un suo messaggio ben preciso e un contenuto profondo che va oltre tutto questo. Rivisita stilisticamente e iconograficamente l’informel degli esordi e si affida al graffito anni ’80 per poi subito superarli contaminandoli con un imprinting del tutto contemporaneo, con una sensibilità nuova e completamente sua.
Non soltanto Caos e materia che si fondono emblematicamente insieme.
Un elemento in più va a caratterizzare la sua poetica. É l’elemento poetico unito a quello musicale. L’informale perde il furore informe, il graffio la sua violenza d’arte di frontiera e la valenza underground a favore della pulizia del segno, quando a dominare è il lirismo, che si carica in questo caso di una musicalità dolce e intensa.
E si riempie del senso del tempo ineluttabile, che passa e va, e di figure archetipiche per antonomasia, vicine alla sensibilità di tutti. Come i poeti. Alcuni mescolati alla trama del quadro, altri più figurativi, isolati sullo sfondo, solitari nel mezzo dei loro giardini immaginari come in un loro personale Limbo, scalfiti dal segno, angolosi e squadrati come totem, essenziali e scabri come una scultura di Giacometti, poetici e santificati con aureole a mezza luna sulla testa, si ergono con la ieraticità sacra di idoli e antichi simboli, si scaldano e si accendono di colori calibratissimi tono su tono, travolti da gorghi di rossi, arancioni, azzurri, muovendosi tra geroglifici e ghirigori vegetali che si intrecciano fra loro come arabeschi, mantenendo una loro presenza pregnante e strutturale, mai posta a caso, tra le graffiature della tela e la stesura del colore. Colori scelti ad istinto, stemperati o accesi, ad acrilico e oli composti da resine e pigmenti, che diventano quasi brani di muri sbrecciati e incisi, nella pittura triturata, tra le linee che solcano e scalfiscono instancabilmente la materia pittorica quasi scarnificandola per lasciare intravedere il supporto, come se la non-pittura arrivasse a rivelare la pittura stessa e la graffiatura mostrasse l’ordito della trama. Nella materia che si scompone e ricompone da sola in un continuo e serrato movimento, le figure rarefatte e bidimensionali dei poeti trovano un loro nuovo modo di essere diventando segni di geometrie spiazzanti, trasformandosi in visione immaginifica non più realmente riscontrabile. Bisogna leggervi dentro per capirne la profondità, così come bisogna scrutare dietro alle infinite variazioni e sfaccettature della pittura per scoprire la poesia che si appoggia a scritte che si nascondono per poi riapparire all’improvviso, marchi impressi e scavati sulla tela, apparentemente incomprensibili, simboli cifrati, codici misteriosi, lettere arcane di un alfabeto nascosto e dalla semiologia complessa. Grafemi non decifrabili poiché in realtà non intendono comunicare nulla se non il loro valore strettamente pittorico e grafico. E poi arriva la musica. L’estetica del graffio di Marino Iotti si basa fondamentalmente sul ritmo. Ha una sua modularità intrinseca. La materia graffita diviene magicamente canto e suono contemporaneo, segue i suoi percorsi non soltanto visivi, giocando sul ritmo dei volumi e l’armonìa della luce. Nel giardino incantato dei poeti si entra ascoltando il suono di lamenti incisi, canzoni senza parole e mai urlate. Dietro all’urgenza del gesto si scoprono incredibili suggestioni musicali. E frasi che ritornano, pur nella loro illeggibilità, se solo ci si fa caso. E che lasciano in qualche modo tracce della loro presenza, intorno a noi e dentro di noi.
di Francesca Baboni, 2005
Graffio e materia. O se vogliamo cambiare i termini, materia graffita. Sono due le componenti formali della poetica di Marino Iotti, assemblate assieme all’interno di un lavoro finito che prevede un processo di sovrapposizione. Pittura. Che riempie lo sfondo oppure è graffiata via, strappata, ma che lascia comunque una sua impronta, energetica e sporca. Un sostrato pittorico che si mostra sotto forma di scavature a più livelli, nel cuore della superficie. Graffio. A metà strada tra lo spontaneismo vitalistico e irriverente di Keith Haring, l’art brut primitiva di Dubuffet e gli scarabocchi infantili dell’enfant terrible pupillo di Warhol, morto a soli 27 anni per overdose, Jean-Michel Basquiat. Graffio come un graffito inciso su un muro. Ma che, al contrario della traccia rabbiosa e provocatoria dei kids newyorkesi, non è una grafia sconosciuta, uniforme o puramente formale, elaborata sotto l’effetto delle anfetamine e basata su di una visualità metropolitana adrenalinica. Così come la materia corposa presente nei quadri non è un informale fine a se stesso, nè si carica di accezioni negative come l’amalgama sofferente e pastoso degli Outages di Fautrier. Marino Iotti ha un suo messaggio ben preciso e un contenuto profondo che va oltre tutto questo. Rivisita stilisticamente e iconograficamente l’informel degli esordi e si affida al graffito anni ’80 per poi subito superarli contaminandoli con un imprinting del tutto contemporaneo, con una sensibilità nuova e completamente sua.
Non soltanto Caos e materia che si fondono emblematicamente insieme.
Un elemento in più va a caratterizzare la sua poetica. É l’elemento poetico unito a quello musicale. L’informale perde il furore informe, il graffio la sua violenza d’arte di frontiera e la valenza underground a favore della pulizia del segno, quando a dominare è il lirismo, che si carica in questo caso di una musicalità dolce e intensa.
E si riempie del senso del tempo ineluttabile, che passa e va, e di figure archetipiche per antonomasia, vicine alla sensibilità di tutti. Come i poeti. Alcuni mescolati alla trama del quadro, altri più figurativi, isolati sullo sfondo, solitari nel mezzo dei loro giardini immaginari come in un loro personale Limbo, scalfiti dal segno, angolosi e squadrati come totem, essenziali e scabri come una scultura di Giacometti, poetici e santificati con aureole a mezza luna sulla testa, si ergono con la ieraticità sacra di idoli e antichi simboli, si scaldano e si accendono di colori calibratissimi tono su tono, travolti da gorghi di rossi, arancioni, azzurri, muovendosi tra geroglifici e ghirigori vegetali che si intrecciano fra loro come arabeschi, mantenendo una loro presenza pregnante e strutturale, mai posta a caso, tra le graffiature della tela e la stesura del colore. Colori scelti ad istinto, stemperati o accesi, ad acrilico e oli composti da resine e pigmenti, che diventano quasi brani di muri sbrecciati e incisi, nella pittura triturata, tra le linee che solcano e scalfiscono instancabilmente la materia pittorica quasi scarnificandola per lasciare intravedere il supporto, come se la non-pittura arrivasse a rivelare la pittura stessa e la graffiatura mostrasse l’ordito della trama. Nella materia che si scompone e ricompone da sola in un continuo e serrato movimento, le figure rarefatte e bidimensionali dei poeti trovano un loro nuovo modo di essere diventando segni di geometrie spiazzanti, trasformandosi in visione immaginifica non più realmente riscontrabile. Bisogna leggervi dentro per capirne la profondità, così come bisogna scrutare dietro alle infinite variazioni e sfaccettature della pittura per scoprire la poesia che si appoggia a scritte che si nascondono per poi riapparire all’improvviso, marchi impressi e scavati sulla tela, apparentemente incomprensibili, simboli cifrati, codici misteriosi, lettere arcane di un alfabeto nascosto e dalla semiologia complessa. Grafemi non decifrabili poiché in realtà non intendono comunicare nulla se non il loro valore strettamente pittorico e grafico. E poi arriva la musica. L’estetica del graffio di Marino Iotti si basa fondamentalmente sul ritmo. Ha una sua modularità intrinseca. La materia graffita diviene magicamente canto e suono contemporaneo, segue i suoi percorsi non soltanto visivi, giocando sul ritmo dei volumi e l’armonìa della luce. Nel giardino incantato dei poeti si entra ascoltando il suono di lamenti incisi, canzoni senza parole e mai urlate. Dietro all’urgenza del gesto si scoprono incredibili suggestioni musicali. E frasi che ritornano, pur nella loro illeggibilità, se solo ci si fa caso. E che lasciano in qualche modo tracce della loro presenza, intorno a noi e dentro di noi.